L’Ex MOI e il diritto alla festa

ramodoro APS
6 min readJan 29, 2021

Domenica di primavera precoce a Torino il 10 marzo 2019.

Le domeniche danzanti all’ex Moi sono sempre una grande incognita. Sui social l’evento esce qualche giorno prima. E’ un gioco di passaparola e, alla maniera di un flash mob, si parte e si va, senza sapere con esattezza fino all’ultimo momento chi e quanti saranno i partecipanti, tra cittadini torinesi e abitanti delle palazzine. Gli occupanti sono persone di provenienza varia che non hanno ottenuto ancora il loro lascia-passare…o il loro “lascia-stare” — una possibilità di andare, una possibilità di stare. Persone che hanno trovato un luogo da abitare, che rischia di diventare un non-luogo: dentro la città, ma un po’ fuori, periferico nel pensiero e nella pratica, ritenuto quasi inaccessibile a molti cittadini che non lo conoscono, o che, se lo conoscono, tendenzialmente lo evitano.

La prima volta che sono entrata all’ex MOI è stato grazie al prezioso contatto con due volontari particolarmente attivi, un’insegnante e un collega antropologo che ha scelto una militanza attiva con le persone che abitano nelle palazzine. Era il 18 novembre dello scorso anno, il MOI si mobilitava e organizzava una festa a ingresso libero per invitare i cittadini a mettere il naso in un luogo spesso idealizzato, ma negativamente. La finalità dell’iniziativa era manifestare il dissenso alle operazioni di sgombero, una soluzione istituzionale frequente nella nostra città per rispondere a problematiche sociali troppo complesse, per punire povertà ritenute colpevoli. Con una collega dell’associazione MAC — movimentoartecreatività, compagna di diverse iniziative per l’inclusione e la partecipazione sociale attraverso gli strumenti della Danzamovimentoterapia Espressivo-Relazionale®, siamo state invitate e abbiamo deciso di partecipare portando proprio la danza, ciò che più ci rappresenta e ci appassiona. Il motto della giornata era DA QUI NON CE NE ANDIAMO, ANZI CI BALLIAMO!

Quella domenica di novembre era stata soleggiata. La partecipazione era stata piuttosto buona, e il clima si era mantenuto festoso fino a sera. Abbiamo potuto visitare i locali del MOI diventati “casa” per tanti. Quella giornata aveva contribuito, per lo meno per i curiosi che si erano avvicinati e avevano preso parte all’iniziativa, non tanto a rovesciare un pregiudizio negativo, ma quanto meno a scalfire uno stereotipo. Il MOI si presenta come un luogo di grande complessità, in cui convivono zone d’ombra e anfratti che la luce riesce tuttavia a raggiungere. Uno di questi è la scuola Zakaria Kompaore, un locale dalle pareti dipinte a colori accesi, in cui si tengono lezioni di italiano, educazione sanitaria, un luogo dove si tenta, fra non poche difficoltà, di fornire una possibilità di (r)esistenza.

La open session di danzaterapia si era svolta, il 18 novembre, proprio lì, a scuola, in una sala dal valore simbolico forte. L’incontro attraverso la danza aveva permesso di stemperare timori e imbarazzi, e sembrava aver funzionato da buon catalizzatore per un dialogo possibile. Per questo motivo abbiamo deciso di ritualizzare questo incontro, di farlo diventare un appuntamento mensile fisso.

La danza, come le mobilitazioni e le manifestazioni, non hanno fermato gli sgomberi, non hanno eliminato i problemi, non hanno semplificato e risolto la complessità. Ma hanno fornito una possibilità, definito una via praticabile di scambio. Di certo, la danza dà voce ad un bisogno primario, che è quello della relazione e dell’appartenenza. Per un paio d’ore si può fare esperienza di comunità. Per un paio d’ore si può fare esperienza della propria esistenza grazie alla condivisione di un luogo e uno spazio realmente vissuti, al di là dell’inesistenza sociale e giuridica. Per un paio d’ore, corpi rarefatti e negati dalle violenze istituzionali e dalle lacune giuridiche possono ritrovare presenza e densità. E lo possono fare in un clima ludico e festoso che svincola almeno per un poco dal grigiore della precarietà.

Da pochi che erano (cinque o sei) la prima volta, i partecipanti alle open session di danzaterapia sono aumentati. Domenica 10 marzo i ragazzi che vivono nelle palazzine erano molti di più.

Fino a ieri ho considerato l’aula della scuola Zakaria Kompaore una stanza. Il via vai di persone che entravano, curiosavano, si fermavano, giocavano e danzavano con noi mi ha fatto cambiare prospettiva. Quella stanza acquisiva tutte le sembianze di una piazza, tradizionalmente il luogo della festa. La piazza è sempre collocata nel punto centrale del villaggio o del paese, e il mezzo tradizionalmente più utilizzato per la festa, momento ritualmente sacro dell’incontro, è la danza. Mi piace pensare a quell’aula della scuola come un luogo che torna a far rivivere e pulsare un centro, che sfugge al dilagare della periferia, che favorisce finalmente una connessione.

Ieri, un giornalista presente a documentare l’iniziativa, mi ha chiesto, fra l’altro, se i ragazzi occupanti che partecipano, provenienti da paesi dove la danza si pratica molto più che da noi, portino codici coreutici propri del loro contesto d’origine. Insomma, è vero o no che “gli africani la danza ce l’hanno nel sangue”? Il giornalista mi pone con scrupolo la domanda, e nel suo tentativo di spiegarmi che cosa intende si evince la consapevolezza del rischio di riprodurre uno stereotipo…Sì, certamente emerge chi siamo e da dove veniamo nella danza, ma più che altro perché ognuno danza la propria storia, gli rispondo.

Al termine dell’incontro, riferisco al giornalista che ho acquisito grazie ad un gioco di dialogo motorio con uno dei ragazzi presenti qualche elemento in più per rispondere alla sua domanda. Si formano delle coppie per giocare un’interazione di gesti che il partner ha il compito di riecheggiare e restituire. Capito con uno dei ragazzi occupanti e mi ritrovo a vedere e a fare l’eco a gestualità che mi si incidono addosso per la loro pregnanza ed essenzialità. Il mio partner di gioco mi propone con una significativa ricorrenza: mani che si proteggono il capo, mani in alto dietro la testa, mani davanti agli occhi, ancora mani in alto dietro la testa, mani che si proteggono il capo mentre il busto si piega verso il basso. Con la coda dell’occhio vedo sequenze simili anche in altre coppie. Il tempo del gioco sta per concludersi. Gli chiedo un ultimo gesto: arrivano, come pioggia fresca in un pomeriggio torrido, mani giunte all’altezza del petto, come una preghiera, come la gratitudine. Interiormente, esulto. Ripetiamo lo stesso gioco di eco dei gesti in un cerchio finale, dove ognuno “pronuncia” il suo gesto e tutto il gruppo lo ripete. Il mio compagno del gioco precedente propone il suo gesto: lancia qualcosa al centro del cerchio. Finalmente. Finalmente viene recuperata una dinamica nella sagittalità, il piano dell’azione, finalmente il gesto compiuto non è per mettersi al riparo o per favorire una perquisizione, ma rivendica un ruolo attivo.

Corpi impauriti possono diventare corpi creativi nell’arco di un paio d’ore. Grazie a che cosa? Al rito, alla festa, alla danza, all’incontro corpo a corpo.

Quali corpi vogliamo? Quali corpi stiamo costruendo? Se è vero quello che insegnano gli studi antropologici nel campo del corpo e della cura, e cioè che la cultura è nel corpo, lo forma e lo in-forma, di quale cultura le istituzioni e le politiche attuali sono portatrici? Nei gesti di molti ragazzi che vivono nella straziante dimensione della sospensione, dell’invisibilità giuridica, o della visibilità che li rende bersaglio dei più biechi razzismi, la cultura incorporata è quella della paura.

La danza allora diventa una possibilità di rielaborare creativamente la paura, il trauma. La festa ha un tempo circoscritto, ma nutro la speranza che la memoria del corpo perduri oltre quel tempo e possa continuare a circolare nel quotidiano, e offrire in qualche occasione l’opportunità di un’affermazione.

Il pomeriggio di domenica 10 marzo si conclude con una merenda preparata e offerta dagli occupanti del MOI e dai volontari. Al presidio dei militari si è aggiunto quello della polizia, mentre danzavamo sono state transennate le aree antistanti le palazzine. Uno sgombero sembra imminente. E mentre ripuliamo il locale della scuola-piazza che ci ha ospitato, qualcuno chiede: “Quando si fa di nuovo la festa?”.

La festa è un diritto. Il diritto alla relazione è un diritto. Noi torneremo a danzare all’ex MOI, perché non cessiamo di esistere finché qualcuno ci vede.

Scritto da Aurora Lo Bue

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